Le vacanze estive non potevo cominciare in modo più “cruento”.
Dopo i pesanti ribassi di venerdì, con tutti gli indici borsistici in ribasso, la settimana inizia, almeno per alcuni mercati asiatici e osservando i futures su quelli europei e americani, in maniera ancora più rocambolesca: il Nikkei, in questi minuti, arriva a perdere oltre il 13%, uno dei ribassi più pesanti che si ricordino. Taiwan segna un calo dell’8,35%, Singapore il 4,63%.
Nettamente meglio, per quanto, comunque, “in rosso”, l’Hang Seng di Hong Kong, a – 2,29%, e Shanghai, a 1,16%.
Fermo restando che, quando si verificano situazioni del genere, le cause scatenanti sono molteplici e non possono essere ridotte a una sola, senza dubbio, nel caso giapponese, buona parte della responsabilità va ricercata nell’improvvida decisione della Bank of Japan di alzare, ai primi segnali di forza dell’inflazione (oggi pari a circa il 2,3%: è proprio vero che è tutto relativo), i tassi, portandoli, dopo il rialzo di qualche settimana fa, allo 0,25%: un livello che, se rapportato a quelli “occidentali”, fa “sorridere” (rinfreschiamoci la memoria: 4,25% in Europa, 5,25/5,50% in Usa). La scelta della Banca Centrale Giapponese, peraltro, è arrivata proprio nel momento in cui, dall’altra parte del mondo, sono arrivati dati non proprio esaltanti per quanto riguarda lo stato di salute dell’economia americana: l’indice ISM, che misura la fiducia dei Direttori degli acquisti delle maggiori società americane, + sceso, a luglio, a 46,8, ben sotto i 48,5 punti di giugno. Le nuove buste paga, di contro, sono aumentate, nell’ultima settimana, di “sole” 114.000 unità, contro le 176.000 previste. Il livello di disoccupazione, invece, è passato dal 4,1 al 4,3%, una percentuale che si accompagna al fatto che, negli ultimi 3 mesi, è crescita dello 0,5% mensile, una percentuale che secondo alcuni indicatori, è “certezza” di recessione. Va comunque detto che l’aumento (dei disoccupati) è stato così evidente a causa dei molti congedi temporanei, saliti di quasi 250.000 unità. Sempre a vedere il “bicchiere mezzo vuoto”, c’è un altro dato che fa riflettere molti analisti: per molti mesi il differenziale di tasso tra i titoli a 10 e quelli a 2 anni ha viaggiato in territorio negativo. Vale a dire il rendimento dei titoli governativi americani a 2 anni era superiore (e non di poco, circa 50/60 bp) rispetto ai titoli a 10 anni (una evidente anomalia: normalmente i tassi a lunga sono, a parità di titoli, superiori rispetto a quelli a breve termine). Normalmente questo fenomeno anticipa di 12-18 mesi l’arrivo della recessione.
Nelle ultime settimane questo differenziale si è “normalizzato”: il rendimento, cioè, dei titoli lunghi è diventato “premiante” verso quelli brevi. E quando questo avviene, dopo, appunto 12-18 mesi di “inversione” della curva, significa che la recessione è alle porte. Aggiungiamoci l’immobilismo della FED sui tagli, il forte rialzo dei titoli tech e la riduzione degli scambi per il clima “vacanziero”, è il “dado è tratto”.
Certo, guardando i numeri odierni qualche brivido lungo la schiena corre. Ma un Nikkei che arriva a perdere, in 3 sedute, circa il 25% del suo valore sembra una reazione un “tantino” esagerata.
E anche la caduta (per ora sulla carta, visto che parliamo di futures) del Nasdaq di 5 punti percentuale, del Russell 2000 di 4,3%, dello S&P 500 del 2,55%, piuttosto che il rialzo del Vix (l’indice della volatilità, non a caso soprannominato “l’indice della paura”), passato, nelle ultime ore a circa 30 punti (+ 37%) sembrano un po’ “sopra le righe”.
Vero che più di qualcuno inizia a puntare il dito su Powell, “sordo” agli inviti di un allentamento (la Banca Centrale Usa è ferma da quasi 1 anno) in quanto troppo concentrato, a detta degli “accusatori”, sull’inflazione, dimentico del fatto che, comunque, i risultati (di una manovra sui tassi) si vedono dopo un po’ di tempo: mentre un’attesa troppo lunga può, quella sì, creare più di un problema all’economia (insomma, più o meno l’accusa che gli era stata rivolta oltre 2 anni: quando, ai primi segnali di inflazione, si lasciò andare all’infausta dichiarazione che l’inflazione sarebbe stata un fenomeno passeggero, per cui non era necessario, in quella fase, intervenire. Abbiamo visto, poi, come sono andate le cose….). I timori, quindi, è che ora, allo stesso modo, l’intervento “al contrario” sia nuovamente tardivo, generando paura e più di un timore. Al punto che qualcuno inizia a pensare che solo una manovra sui tassi sia comunque insufficiente e si renda necessario intervenire anche sulla liquidità, riducendo o annullando il “quantitative tightening”, vale a dire il “drenaggio” della liquidità sui mercati.
Rimane il fatto che la reazione, osservando i primi scambi e, appunto, l’andamento dei futures Usa, sembra quanto meno eccessiva e un po’ esagerata (pur considerando anche la “variabile” geo-politica, con molti osservatori che danno per imminente un attacco iraniano ad Israele).
Le aperture europee sono da “allacciamento delle cinture”: il nostro MIB cede più del 4%, con molti titoli, soprattutto bancari, attualmente “sospesi” per eccesso di ribasso (è noto come il listino milanese sia particolarmente influenzato dal settore bancario-finanziario, con una componente intorno al 35%/40% della sua intera capitalizzazione).
A livello europeo i ribassi si attestano intorno al 3%.
Futures Usa, come detto, compresi tra – 1,7% (Dow Jones) e 5% (Nasdaq).
L’oro, nonostante “l’incendio”, non da particolari di forza, rimanendo sotto i $ 2.450 (con un leggero indebolimento nei primi scambi).
Idem il petrolio (di solito, quando si prevedono, in medio-oriente, “momenti difficili”, tende a rafforzarsi, sul timore di un blocco della produzione), con il WTI che arretra di circa l’1% ($ 72.86).
Gas naturale Usa a $ 1,935 (- 1,83%).
Spread a 150, con i BTP 3,62%.
Bund a 2,17%.
Treasury a 3,77%. “L’accoppiata” bund-treasury sta a confermare la ricerca “di un rifugio sicuro”, in questi giorni, da parte di molti investitori.
€/$ a 1,0929, con l’€, quasi incredibilmente, in rafforzamento.
Crollo del bitcoin, passato dai $ 64.000 di venerdì agli attuali $ 51.667.
Ps: Parigi val bene una messa. Questo lo sappiamo. Ma vale anche un “fiume di lacrime”. Quelle di Novak Djokovich, che, finalmente, ha coronato il sogno di vincere una medaglia olimpica. Oggi non è il momento di fare la “classifica” su chi è o è stato il più forte giocatore di tutti i tempi. Ma di rendere omaggio a chi, pur avendo vinto tutto quello che c’era da vincere, e avendo ormai un patrimonio multimilionario, all’alba dei 37 anni è in grado di commuoversi con un adolescente alla prima vittoria solo per il fatto di aver vinto rappresentando il proprio Paese, dando “dignità” sportiva a tutti i suoi connazionali. Chapeau (e cosa se no).